mercoledì 28 settembre 2011

Qualcosa sul Viaggio

Ricercare la "nuova prospettiva culturale", il diverso e il nuovo tramite il viaggiare, nel momento in cui ciò significa l'assistere o ancora peggio il partecipare ai deja-vu delle relazioni sociali che in tale occasione si verranno a creare, mi pare assai infantile e superfluo. Questo per il fatto che ciò a cui si va incontro non è altro che una "diversità" esistenziale fasulla, celata da sembianti sociali che oggi si possono ritrovare identici, sotto false spoglie, ai quattro angoli del globo. L'alterità inquietante dello Straniero è scomparsa tra le mascherate della "multiculturalità" il cui fondo assoluto è il medesimo nulla. Il viaggio si muta quindi anch'esso in una droga che possa in qualche misura arginare il dilagare del non senso nell'esistenza individuale.

Comprendo in effetti la possibile utilità di un viaggio volto alla ricerca di atmosfere e intuizioni che non siano immediatamente accessibili alla quotidianità di un ipotetico insoddisfatto; ma non condivido ciò quando queste si connotano di tratti "troppo umani", di malcelate necessità di affetti, calore umano, etc.
Da questo punto di vista, il viaggio lo giustifico oggi qualora si presenti come una forma di esteriorizzazione di esigenze interiori più o meno coscienti, ma che abbiano sempre dei punti in contatto con il centro fondamentale del sè, che sempre spinge verso l'oltre in ogni direzione possibile, spiritualmente parlando; e non è viaggiando fisicamente che questo movimento si manifesta, se prima non ci si è denudati profondamente dinanzi a sè stessi.
Il viaggio come confino, esilio, ascesi.

Non ci può essere "ricerca spirituale" nel viaggio "sociale", perchè nella nostra epoca ogni approccio in questo senso è già dato nell'esistenza di ogni giorno e nei suoi modi di ramificarsi nell'io attraverso i mezzi che le sono propri; e l'incontro (o scontro) con l'Altro viene evitato, o meglio deviato, tramite le costruzioni mentali e culturali contemporanee, sfilacciate e massificanti. Anche il viaggio diviene prodotto di consumo, e nulla di più.

L'unico viaggiare che personalmente apprezzo è quello in grado in qualche modo di mettere alla prova il fondo reale delle proprie possibilità, e in questo senso fondamentale è la solitudine, sia del viaggiatore che della suo percorso e della sua destinazione. Essere fuori dall'umano per delinearsi nel proprio essere "realmente" umani: questo non significa necessariamente affrontare un regime militaresco di tappe forzate nel mezzo della tundra ghiacciata; ma ad esempio il portarsi al di là dei propri terrori anche nel bosco fuori casa, la notte, o il sopportare la fatica, il freddo e la solitudine dell'alta montagna, per scoprire reazioni sconosciute del proprio essere, che nel regime di piattezza metabolica e tecnologica attuale ci sono precluse.

Naturalmente non condanno la pigrizia, che come tutti gli altri caratteri umani (avidità, empatia, omosessualità, alcolismo, daltonismo...) è soggettiva. Bisognerebbe però testare su di sè questo genere di possibilità prima di escluderne l'efficacia psicofisica-spirituale a priori. Così come non ho dubbi, del resto, che non sia necessario testare il viaggio "sociale" delineato sopra per constatarne l'inutilità ai fini di una vera ricerca spirituale soggettiva, la quale sola, per ora, mi pare in grado di rendere la vita vivibile ai pochi che ne avvertono il richiamo pulsante, continuo e incessante nel proprio trascinarsi quotidiano.

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