giovedì 28 dicembre 2023

Suggestioni archetipiche dalla leggenda di Sant'Uberto

 

Il tre di novembre, nel pieno della stagione venatoria, si celebra in ambiente cattolico il santo patrono dei cacciatori per eccellenza, almeno per quel che riguarda l’Europa centro-occidentale. Da vegetariano pluriennale, la vicenda agiografica di Sant’Uberto cattura comunque il mio interesse – così come il mondo della caccia europea in generale – per certi suoi rimandi enigmatici a un probabile sostrato culturale ormai perduto nel buio dei secoli. La pratica venatoria conserva del resto ancora oggi aspetti arcaici per via della sua stessa natura cruenta, logica conseguenza del contatto immediato con le forze naturali. La devozione a Sant’Uberto, ormai solo sporadicamente praticata, è appunto uno di questi*. Immersa nella penombra silvestre delle colline delle Ardenne, la leggenda del santo si mescola alla realtà politica del tempo e alle epiche cacce autunnali al cinghiale dei carolingi, specchio queste ultime del potere guerriero della dinastia. Azzardare una caccia di questo tipo in quella stagione difficile, sia per le condizioni ambientali – le piogge insistenti e il freddo incombente che flagellano il bosco – che per il comportamento dei suidi in amore, di norma più aggressivo, era chiaro segno di forza e potere. Le Ardenne erano inoltre la culla della dinastia carolingia e pipinide, favorite ai tempi appunto dall’operato di Uberto vescovo di Liegi ma anche dal suo immediato predecessore. Al di là della tardiva sovrapposizione agiografica e quindi iconografica tra la figura di Sant’Uberto e quella del suo antecedente Sant’Eustachio, di cui non si ha certezza storica riguardo l’esistenza, sovrapposizione legata alla figura tradizionale del cervo quale animale anticamente ritenuto proverbiale avversario del serpente, sono interessanti alcuni echi simbolici che suggeriscono reminiscenze culturali ormai perdute. La caratterizzazione simbolica del santo rimanda infatti, per certi suoi aspetti, alla figura primordiale del “Signore degli Animali”, principalmente per quel che riguarda i temi del sacrificio e dell’offerta propiziatori dedicati al santo stesso. Era tradizione nelle Ardenne, tra i nobili cacciatori, votare la caccia a Uberto offrendo anche parte della prima selvaggina abbattuta; troviamo inoltre, in una agiografia più tarda (XI sec.) lo stesso tema trattato in chiave differente. Un certo conte Alberto di Namur, infatti, era solito opprimere i possedimenti ecclesiastici di quelle terre. Tre suoi esattori, in particolare, rubarono un porco al monastero di Anserenne, ma non poterono poi cucinarlo e quindi consumarlo perché il fuoco non si accendeva in alcun modo, per influenza di Sant’Uberto. Dopo averlo divorato crudo, denotando così la loro intrinseca, anticristiana bestialità, successivamente morirono. Questo evento convinse il conte Alberto a redimersi, recandosi poi in pellegrinaggio alle reliquie del santo. Questi elementi – l’offerta propiziatoria e l’impossibilità del consumo del porco rubato – rimandano a tradizioni ben più antiche delle quali rimane traccia letteraria: nel medioevo inglese troviamo in Sir Gawain la splendida e naturalistica descrizione conclusiva di una scena di caccia al cervo, con lo svisceramento delle carcasse delle cerve uccise che prevede un inaspettato momento di offerta alle forze naturali:

La testa e il collo troncano quindi, separano il lombo dal dorso, gettano in un cespuglio il compenso del corvo.

Nei miti nordici, un episodio in particolare ricorda la vicenda degli esattori di Alberto:

Si racconta che una volta Odino, Hoenir e Loki stavano viaggiando tra le montagne e in regioni desolate e avevano difficoltà a procurarsi il cibo. Scesi però in valle, trovarono una mandria di buoi; perciò ne presero uno, lo uccisero e si apprestarono a cucinarlo. Quando giudicarono che fosse pronto, si prepararono a mangiarlo, ma lo trovarono ancora crudo. Lo cucinarono una seconda volta e si prepararono a mangiarlo, ma di nuovo trovarono che non era cotto. Allora cominciarono a domandarsi da che cosa potesse dipendere questo fatto. In quel mentre udirono una voce proveniente dai rami di una quercia, proprio sopra di loro: l’essere che stava lassù aveva il potere di impedire che il fuoco cuocesse. Guardarono verso l’alto e videro un’aquila assai grande. L’aquila disse: “se mi darete la mia parte di bue, il fuoco cuocerà”. Essi acconsentirono.

Si tratta certamente qui di suggestioni difficilmente verificabili, come sempre quando si tratta di archetipi della tradizione dalle radici talmente profonde da risultare ormai invisibili a noi; ma proprio in virtù di questi loro attributi nascosti, spesso solo intuibili, il loro potere rimane ancorato agli strati profondi della psiche. In questo senso le figure dei santi possono ancora valere quali simboli universali validi nella ricerca ed esplorazione su più livelli di questi stessi strati.

 

*Quasi tutti i riferimenti del presente post derivano dall'ottimo testo di P.Galloni, Storia e Cultura della Caccia, Laterza, 2000. Le altre citazioni sono tratte da Sir Gawain e il Cavaliere Verde, Adelphi 1986, e G.C.Isnardi, I Miti Nordici, Longanesi 2018.

 

Albrecht Durer Saint Hubert In Adoration Before A Cross Carried By A Stag

particolare di caccia con falcone dal dipinto sottostante

particolare di caccia al cervo dal dipinto sottostante; si notino le recinzioni preparate appositamente ai margini del dirupo e la balestra portata dal cavaliere

bottega del maestro della vita della vergine - conversione di sant'uberto, seconda metà del XV sec. National Gallery

Schiele Visione sant uberto 1916

Von Stuck 1890

 

domenica 23 luglio 2023

Vagheggio a maggio in Val Taleggio

 

 

 
 
Ancora una volta, quest'anno, provo l'effetto di questi luoghi nello sfavillare di un giorno di maggio "normale", comunque reduce dai soliti stravolgimenti climatici e in fin dei conti antropici ai quali, purtroppo, bisognerà abituarsi per questioni di mera sopravvivenza nella bruttura crescente del Kali Yuga. In questa valle appartata la primavera è matura: il verde acido delle faggete in boccio abbraccia lo zampillare delle acque sorgenti dagli anfratti scuri delle argilliti, acque tra le più apprezzabili delle montagne lombarde, limpide e fredde dopo i precedenti giorni di pioggia. Mentre cammino su una traccia di sentiero, da Vedeseta ad Avolasio, raggiungo i dintorni della contrada di Salguggia (trovo i toponimi taleggini molto affascinanti, come si vedrà poco oltre). Intorno si affacciano resti diruti di stalle, casèl e fienili che sono apparizioni improvvise nel fortunato abbandono in cui versano. I muri sono bianchi di pietre calcaree, i tetti in lastre di pietra di Berbenno, invece, sono neri del fradiciume delle piogge primaverili scese come una benedizione nei giorni scorsi. La loro fortuna nella perdizione è non avere ancora perso il loro carattere a causa dell’arrivo di nuove strade e conseguenti ristrutturazioni casuali. Sorge un significato da questi luoghi che si manifesta, per me, sempre più in una sorta di orgoglio distaccato che si nutre di fantasmi. In questo ha un ruolo simbolico di rilievo la recente scomparsa di mio padre. Gli antenati senza volto e senza nome che modellarono attraverso secoli di immense fatiche, spesso nella povertà, gli spazi rurali del nostro vivere le montagne, assumono le sembianze di una razza di giganti scomparsi, in grado di riapparire ormai solo nei sogni – e comunque molto sporadicamente.
 
 Ci sono valli che più di altre possiedono un potenziale narrativo del loro irrecuperabile passato, e questo si materializza nelle loro peculiarità paesaggistiche: nella bergamasca, ad esempio, in Val Taleggio la presenza di formidabili acque calcaree e di vaste praterie d’altura concretizza la secolare vocazione casearia; la Val San Martino sente lo spirito del vino, delle selve di castagno e dell’arte dell’uccellagione con i suoi cadenti roccoli di crinale, e così via.  Il costruito storico taleggino si manifesta anche al di là dei suoi manufatti: lo spirito di quei giganti è nel vento che scendendo dai monti intorno sferza le alte erbe degli antichi pascoli, nell’ombra dei boschi che drappeggia le argille trasudanti acque, raccolte poi nelle pietre lavorate delle fontane e dei lavatoi nelle contrade. Il silenzio sembra l’unico testimone rimasto di quei tempi remoti; le popolazioni di queste valli non hanno mai avuto la necessità di narrarsi durevolmente se non attraverso le loro opere materiali. Popoli dalla memoria scritta quasi nulla; certo cantavano… ma la loro memoria è incisa nel paesaggio stesso che per secoli abitarono, e poi abbandonarono. Se vi è traccia della loro scrittura questa è materica e spesso labile, i cui mezzi sono diversi da quelli di nostra abitudine – solo questo fatto reca suggestioni di una civiltà “altra”. Vagando per monti e valli emergono i segni incisi nella pietra, senza tempo. Croci confinarie oggi spesso nascoste dal folto dei boschi pionieri che vanno riconquistando prati e pascoli; architravi in pietra e legno firmati da spettri di genti senza volto; pietre di potere fittamente costellate da coppelle incise chissà quando e per quale scopo; le minute, spesso eleganti scritture presenti nelle cappellette votive di campagna, segni di una vicinanza al sacro accostabile a quelli, più rari, fatti in carboni di legna all’interno di grotte e ripari asciutti nel cuore dei boschi.
 

 Il paesaggio nasconde anche un’altra scrittura sempre sull’orlo dell’oblio, quella della micro-toponomastica locale, scrigno di informazioni per gente più erudita di me. Io mi accontento del fascino che certe designazioni portano con sé: una sorgente detta Bragoleggia, inghiottita ormai dalla boscaglia nei pressi di una stalla in Valle Asinina; il passo Baciamorti; la contrada di Avolasio; la sorgente incrostante della Mufolenta; i piani d’Alben; la Scandolera, località un tempo molto probabilmente caratterizzata dalla presenza di tetti in scandole – potrei andare avanti molto a lungo, in quanto trovo la toponomastica molto rilassante. Tutti questi sono dati e conoscenze bistrattate e rimosse spesso dai nostri stessi padri, la cui probabile imminente scomparsa ci pone davanti al senso di quella che chiamiamo, nel bene o nel male, “tradizione”, e di quello che questa ancora può darci in termini di suggestioni e conoscenza.
 

 

lunedì 4 aprile 2022

rosso bolognese

 

 

Bologna la grassa, vetusta madrina vestita di rosso antico, sorveglia come chioccia le generazioni di studenti che da sempre, alternandosi, popolano le sue viscere. Una signora dai fianchi cadenti, incline ad una certa poetica mollezza, esperta amante dei bagordi notturni che la riportano per poche ore alla giovinezza ormai perduta. Città che ammalia ma nella quale non vivrei: il suo fermento sotterraneo, eccessivo e caotico, il vagare di troppi giovani, carichi degli strascichi delle ebbrezze e dei sogni universitari, ne popolano i portici chilometrici, odorosi di ormoni ed urina, lacerando via via il mio sottile tessuto psichico, sempre affaticato dal dovere dell’identità. Troppi fantasmi in forme di vite potenziali si aggirano nell’aria umida delle strade e dei vicoli. E tutto questo caos invisibile, frutto disordinato di milioni di vissuti post-adolescenziali, è troppo spesso tinto dai colori eccessivi della politica. L’opulenza grassa, quasi al limite dell’indigestione, della sua eccellente cucina è influenzata anch’essa dalla presenza cosmopolita della popolazione giovanile: e scorgo il riflesso scuro di questo vivere festaiolo, benedetto dalla salute e dalla spensieratezza, nelle macabre collezioni cittadine degli squartamenti in cera e delle deformazioni in formaldeide. Città di passioni violente, il caldo rosso bolognese delle facciate dei suoi grandi palazzi suggerisce tramonti antichi e interminabili, mentre l’alta torre sghemba domina su tutto, minacciando la rovina come un’ubriaca barcollante. Sgorgando da una basilare assenza di controllo o da una reviviscenza di primordialità, rappresentata alla perfezione dalla scena del Compianto, il sangue fresco di Bologna colora e alimenta le sue stesse millenarie pietre di sapienza: equazione rabelaisiana?